UCRAINA, MON AMOUR

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UCRAINA, MON AMOUR - SPECIALE DEL MESE MARZO 2022

Salvatore De Masi e Salvatore Palma

Marzo 2022. Il telegiornale mostra una fila di povera gente che fugge dalla guerra: anziani, donne e bambini al confine tra l’Ucraina e la Polonia. Gli uomini validi sono rimasti a difendere la loro terra, tante donne sono con loro.

Chi scappa dalla guerra porta le sue poche cose in un sacchetto di plastica. E la nostra mente torna indietro nel tempo alla sera dell’11 giugno del 1995, quando trenta bambini ordinati in fila uscivano dalla scuola materna “Galilei” con un sacchetto di plastica con le poche cose portate. Quei bambini venivano dalle lontane terre dell’Ucraina e della Bielorussia, avevano un’età compresa tra i sette e i tredici anni, nati tra il 1982 e il 1988, a cavallo del disastro di Černobyl delle ore 1:23:45 del 26 aprile 1986.

Prendeva corpo il “Progetto Černobyl”, iniziativa che, alcuni mesi prima, il locale circolo di Legambiente aveva proposto alle associazioni di Trepuzzi, raccogliendo la loro adesione e quella di numerosi cittadini.

Il progetto fu replicato negli anni successivi fino al 1998, coinvolgendo 41 famiglie che ospitarono 91 bambini. Un aspetto merita di essere subito sottolineato: la risposta di Trepuzzi fu corale e indipendente dalle scelte politiche, dagli orientamenti culturali e da ogni altra variabile in base alla quale siamo maledettamente abituati a classificare le persone. Cosa rese possibile quello che oggi sembra un miracolo?

Furono quei bambini con le loro fragilità, con la loro voglia di vivere momenti di gioia spensierata, come i loro coetanei di paesi più fortunati, con il loro bisogno di cura. Fu questa la parola magica che animò il paese ininterrottamente, per quattro anni; perché se in estate arrivavano i bambini, durante le altre stagioni bisognava raccogliere i fondi per organizzare il loro soggiorno.

L’organizzazione era affidata a volontari organizzati in un Comitato, ma, di volta in volta, coinvolgeva tanti altri nostri concittadini; degli uni e degli altri non faremo i nomi, perché l’elenco sarebbe troppo lungo, ma soprattutto per conservare il carattere di coralità dell’impegno. In quegli anni gli sportivi organizzarono tornei per il Progetto, cantanti e musicisti cantarono e suonarono per il Progetto, feste da ballo animarono le serate dei trepuzzini, medici prestarono le cure necessarie ai bambini del Progetto, mentre il paese se ne prendeva cura.

Prendersi cura è più di prestare le cure, perché coinvolge, nella sua interezza, l’uomo, che si fa carico dei problemi, dei bisogni e delle aspettative di un suo simile. Il lavoro del Comitato e l’accoglienza delle famiglie furono resi possibili dalla grande partecipazione di giovani che conoscevano la lingua inglese, attraverso la quale si poteva più agevolmente comunicare, e dalla costante presenza di una brava dottoressa di Lingue straniere che traduceva dal russo all’italiano.

Due parole esprimono compiutamente lo spirito che animò la nostra comunità in quegli anni: carità e solidarietà. Le usiamo entrambe non per marcare una divisione tra due differenti idee intorno ai rapporti tra gli uomini, ma per dire che sono entrambe parte della nostra cultura, che affonda le proprie radici nella classicità greca e romana, e nel Cristianesimo.

χάρις, in greco, e caritas in latino indicano l’amore e la benevolenza nei confronti di qualcuno; caritas tui, in Cicerone, è l’amore per te.

E non è questo un sentimento condiviso dal genere umano nel suo complesso? E cosa toglierebbe al laico il fatto che il cristiano viva questo amore come un legame tra sé, il suo prossimo e Dio? E perché il cristiano dovrebbe guardare tiepidamente la parola solidarietà? Essa indica la saldezza di sentimenti che lega il genere umano, la condivisione, il farsi uno del molteplice: ut omnes unum sint, leggiamo nel Vangelo secondo Giovanni. Non è, quindi, di queste parole che avremo paura, ma delle parole di odio e di violenza che questa maledetta guerra fa circolare.

A Trepuzzi e in tanti altri luoghi d’Italia abbiamo accolto bambini provenienti dall’Ucraina e dalla Bielorussia; insieme hanno giocato, insieme hanno ricevuto cure mediche e la cura delle famiglie che li hanno ospitati: che non debbano fronteggiarsi in questa maledetta guerra.

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