SALVARSI E SALVARE

COSÌ SI RINASCE A CASA CONNÒ

In più occasioni vi abbiamo parlato di luoghi meravigliosi e residenze da sogno. La realtà però, come spesso accade, non è così patinata. Oggi vi porto idealmente con me in una struttura che riscrive il concetto di “lusso” e dove la priorità è la normalità, il vivere di cose semplici.

Chi non hai mai sentito parlare di Casa Connò? Il centro terapeutico riabilitativo per tossicodipendenti e alcolisti. Bene, oggi ve lo mostrerò da un punto di vista inedito, attraverso una storia che vi coinvolgerà e sconvolgerà.

 La struttura fa parte della Comunità Airone, che opera da oltre vent’anni nel campo della prevenzione, del recupero e del reinserimento in società di chi soffre di dipendenza da droga e alcool. Sorge lungo la strada di campagna che collega Trepuzzi a Squinzano, meglio nota come percorso della salute.

Arrivo a destinazione e in lontananza intravedo qualcuno. È Fernando Bianco, educatore di Casa Connò. Mi viene incontro e mi travolge subito con la sua eclettica simpatia. Mi porta in giro per la struttura e resto immediatamente incantata dal giardino: in un’immensa distesa verde vivono indisturbati conigli, maialini, papere, galline e persino un pavone! Tutto mi trasmette tranquillità. E forse è proprio quello che serve qui. Diamo un’occhiata anche all’interno, non manca proprio niente. Mi sento in un piccolo mondo parallelo: un’ampia zona giorno con salone, cucina, depositi e la zona notte che può accogliere fino a venti ospiti. In questo momento ce ne sono dodici. Una scelta precisa, basata su un concetto di accoglienza che pone l’accento sui rapporti umani, in contrapposizione al metodo terapeutico di massa. Raggiungiamo una stanza, ci accomodiamo e iniziamo a chiacchierare…

Fernando, cosa significa essere educatore in una comunità di recupero?

Per rispondere a questa domanda, devo raccontarti il mio passato. Non nasco come educatore, ma come tossicodipendente. Te lo aspettavi? E aspetta di ascoltare tutta la storia! Erano gli anni ’80, non sapevo neppure cosa fosse la droga e quali fossero le sue conseguenze. Amavo la vita mondana e iniziai a frequentare festini e persone molto stravaganti. Ma per far parte del gruppo dovevo seguire le loro regole o mi avrebbero fatto fuori. Tra queste rientrava fare uso di sostanze. E così, con una banconota da 100mila lire, senza capire come e perché, sniffai cocaina per la prima volta. Entrai in un circolo vizioso di feste, droga (diversi tipi) e champagne. La mia vita andò avanti così per anni, fino a quando terminai tutto il denaro che possedevo. Fu a quel punto che intervenne mia sorella e iniziai al “San Camillo” il travagliato percorso di disintossicazione. Riuscii ad essere pulito per un periodo, ma sbagliai più volte. Mi alzavo e ricadevo, continuamente. Entrai così in comunità. Tante comunità, per tanti anni. Solo quando arrivai a Trepuzzi ci fu la svolta. Casa Connò mi ha salvato. I suoi educatori mi hanno salvato. Dopo 33 mesi di cammino terapeutico, mi proposero di lavorare in struttura come operatore e sono ormai 20 anni che presto servizio qui. Ora posso rispondere: come i miei predecessori hanno salvato me, così io sento di poter salvare chi passa da questa comunità.

E come ti senti da quando hai ripreso in mano la tua vita?

Felice, come non lo sono mai stato. Continuo a godermela, ma in modo diverso naturalmente (*sorride*). Quando si cade così in basso e ci si ritrova completamente ricoperti di fango… è proprio a quel punto che scatta qualcosa: la svolta, la voglia di cambiamento. Ho ripreso per mano la vita che mi sfuggiva e oggi posso raccontare di quanto sia stato fortunato. Nel lungo cammino di riabilitazione ho visto tanta gente non farcela, andare oltre a quel limite da cui non c’è più via di ritorno.

Nel tuo percorso da educatore ci sono state più vittorie o sconfitte?

Vittorie. Nel mio caso poi, aver già vinto una volta sprona i ragazzi a dare il massimo per farcela. E magari chi lo sa, un giorno prendere il mio posto. Educare è l’altra vittoria, una soddisfazione. Non è facile aiutare i giovani che passano da qui, ma li capisco. In fondo chi meglio di me conosce tutte le fasi del programma, del percorso terapeutico, le loro storie, le loro emozioni? So cosa provano, so come aiutarli.

Cosa prevede il programma? E cos’è il percorso terapeutico?

I nostri ospiti arrivano in struttura tramite il SERT (Servizio per le Tossicodipendenze), dopo una serie di analisi e controlli. Si studia dunque un piano terapeutico che generalmente dura 18 mesi, un percorso personalizzato per ciascun ragazzo. Ognuno ha la sua storia, ognuno ha le sue dipendenze.  Durante questo periodo, in diverse occasioni, fanno ritorno a casa per abituarsi lentamente a rientrare in società. Terminati questi mesi, se tutto procede come dovrebbe, a meno che l’ospite non sia un detenuto, si torna alla vita di tutti i giorni. E si è già preparati perché noi educatori, insieme alle famiglie, ci impegniamo a trovare loro una sistemazione, lavorativa e non, affinché sappiano già cosa fare ed evitino distrazioni.

Perché affrontare la tossicodipendenza in comunità?

Vivere il recupero da soli non è facile e poi bisogna fare i conti con l’astinenza. Chi si limita a seguire le sole indicazioni del SERT si rende spesso conto che non sono abbastanza, se si vuole guarire in modo permanente. La comunità è un mondo a sè, si abbandona per un periodo tutto quello che c’è fuori e ci si concentra solo sulla propria persona.

Come si svolge una giornata tipo?

Dalla mattina alla sera, ogni momento viene occupato da un’attività. Ci si sveglia di buonora e si procede con la Parola dell’Assoluto. A turno, ognuno di loro, sceglie una parola che lo ha colpito particolarmente durante la lettura di un libro. E la commenta con il gruppo, spiegando il perché della scelta, cosa suscita in lui, a che cosa lo fa pensare. Per esempio “casa” può rimandare ai bei tempi trascorsi con la famiglia. Dopo un’abbondante colazione, via a tutte le altre attività: servizi per la comunità, incontri con la psicologa e gli educatori, chi si occupa della campagna, degli animali, della cucina, dei lavori di manutenzione. A ognuno il suo. Quando si fa sera, dopo cena, ci riuniamo per confrontarci sull’andamento della giornata e i ragazzi scrivono tutte le loro considerazioni su una sorta di diario personale, appuntando tutto ciò che passa per la mente.

Perché la gente si droga?

Bella domanda. Perché mi drogavo? Perché nonostante tutto quello che si sa oggi la gente, i giovani soprattutto, continuano a drogarsi? Noia, amicizie sbagliate, paura, voglia di sballarsi, di sentirti padroni del mondo e invincibili, liberi di esprimersi senza filtri. Possono essere tante le motivazioni, ma nessuna regge il calvario che viene subito dopo, quando si tocca il fondo.

Salutiamoci con un monito, un consiglio.

Soprattutto ai giovani dico: siate consapevoli che avvicinarsi al mondo della droga e dell’alcool porta solo disgrazie e distruzione. Ora che abbiamo, avete, gli strumenti giusti per conoscere tutto il negativo che si cela dietro quel mondo apparentemente luccicante, siate furbi. Non rovinatevi. Amatevi, piuttosto. Accettatevi per quello che siete, divertitevi con i mezzi che avete, vivete senza strafare e senza eccessi e scoprirete la meraviglia di un’esistenza serena e appagante.

Al termine della chiacchierata sono io a sentirmi appagata. E grata, principalmente. Grata di essere stata testimone della sua confessione; grata di avere i mezzi per condividerla con voi; grata di sapere che esiste davvero una seconda possibilità per tutti; grata di conoscere persone come Fernando, che è riuscito a riscattare il suo passato senza snaturarsi.

Mariafrancesca ERRICO

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