A TU PER TU CON MICHELA MARZANO
“Stirpe e vergogna” è l’ultima fatica letteraria di Michela Marzano, filosofa, accademica, saggista, già politica italiana e nostra concittadina onoraria.
Il libro, che ha presentato anche a Trepuzzi, intreccia il suo passato familiare alle pagine più controverse della storia del nostro Paese.
Michela, che per tutta la vita si è impegnata a stare dalla parte giusta, non avrebbe mai immaginato che suo nonno fosse stato un convinto fascista della prima ora. Per lei i fascisti erano sempre stati gli altri, quelli contro cui lottare.
Perché ha dovuto scoprirlo da sola? Perché nessuno le ha mai detto la verità?
Era un segreto di cui vergognarsi oppure un pezzo di storia inconsciamente cancellato? Scandagliando il complicato rapporto tra sangue, eredità e memoria, questo scritto si fa monito.
E allora noi abbiamo voluto incontrare l’autrice, per condividere con lei il nostro progetto che chiama in causa i valori che le sono cari: l’appartenenza, l’attivismo, la partecipazione, il coraggio. E così le abbiamo chiesto qualche consiglio…

Michela, nei suoi scritti e nei suoi discorsi, lei parla spesso di appartenenza come valore, ma anche come responsabilità. Una sorta di dovere morale da adempiere. Come?
Inizio con il dire che la questione della responsabilità, a parer mio, è centrale. E lo dico anche da docente di Filosofia morale. Ai miei studenti lo ribadisco spesso: la responsabilità viaggia inevitabilmente di pari passo con la libertà. Considerato che la libertà si declina anche nella possibilità di scegliere, bisogna sapersi assumere la responsabilità delle scelte che facciamo e delle azioni che portiamo avanti.
All’interno di una comunità la responsabilità è ancora maggiore. Non sono da solo al mondo. Vivendo con gli altri è importante rendersi conto che i propri gesti hanno sempre delle conseguenze anche sul contesto sociale. Appartenere ad una comunità significa coltivare, ogni giorno, la consapevolezza che la tutela dei beni comuni passa anche dall’atteggiamento di ognuno di noi. Ecco perché l’appartenenza è una responsabilità: io sono responsabile anche della serenità degli altri, per ciò che condividiamo.
Non si resta sempre nei luoghi ai quali si sente di appartenere. Restare, a volte, significa anche resistere. Spesso significa reinventarsi. Ha qualche consiglio per ri-esistere dove si è nati?
Restare, resistere, riesistere…sono tre concetti molto legati tra loro. C’è una forma di resistenza sia quando si resta e ci si batte per cambiare le cose, sia quando si parte e si va altrove e poi si decide comunque di tornare. Secondo me la questione del riesistere è qualcosa che ci caratterizza tutti, indipendentemente dal fatto che si resti o si torni.
Penso che ognuno di noi si reinventi ogni giorno. Talvolta è proprio con la consapevolezza dell’altrove che possiamo riabitare i luoghi conosciuti e riesistere nuovamente.
Che cosa direbbe ai ragazzi di oggi, per cui spesso è più facile andar via piuttosto che restare e farsi promotori di cambiamento?
Io direi che entrambe le cose sono difficili. Andar via significa convivere con una nostalgia feroce.
C’è una canzone che adoro di Gianmaria Testa che si intitola “Ritals”. I francesi utilizzavano questo termine, con accezione dispregiativa, per indicare gli italiani che emigravano. Bene, in questa canzone Testa dice che «bisogna dimenticare in fretta una lingua e impararne un’altra». Questo vuol dire anche dimenticare delle abitudini ed impararne altre. Ciò significa, purtroppo, rinnegare un pezzo di sé e della propria storia… e tutto questo è dolorosissimo.
Anche restare, però, è doloroso e faticoso. Restare significa spesso battersi e implica un altro tipo di fatica. Quella di chi si incaponisce e vuole a tutti i costi che le cose cambino e si impegna perché questo avvenga. Io ho vissuto entrambe le esperienze: prima il dolore dell’essere partita e adesso la cocciutaggine del tornare e restare qui.
Ci pensavo proprio ieri, quando in casa ho visto delle mattonelle sporche di ruggine. Ho distrutto le mani per scrostarle. È una metafora? Sì. Battersi significa impugnare idealmente ogni giorno una spugna abrasiva e grattare, mattone dopo mattone.
Partire vuol dire chiudere a chiave quel mattone, sapendo che comunque, prima o poi, su quel mattone si può tornare.